A due anni dalla pubblicazione del mio libro sui Fondi
Interprofessionali sento l’esigenza di riflettere sui molti cambiamenti di
scenario avvenuti specie nell’ultimo anno.
Come molti operatori del settore della formazione finanziata
sanno, la lettera di ANAC (Authority Anticorruzione) al Ministero del Lavoro dei primi del 2016 ha messo
in evidenza, al di là delle tesi espresse, un notevole vuoto normativo
riconosciuto anche da una successiva circolare ministeriale (10 del 18 febbraio 2016) che parla di una "giurisprudenza e una dottrina non univoca".
Dovendolo riassumere per i non addetti ai lavori: i Fondi
Interprofessionali sono Enti Pubblici?
Secondo ANAC (e molte sentenze di organi giudicanti) sembra
di si. Da questo ne conseguirebbe l’obbligo di gestire tutti i contributi
erogati secondo la normativa sugli appalti pubblici.
Esiste però una serie altre sentenze che però contraddicono
questa tesi e giungono addirittura a definire le risorse in capo ai Fondi
Interprofessionali come di natura privata.
Personalmente sono poco affascinato da queste controversie,
a mio parere la risposta è molto semplice: se i Fondi vengono ritenuti
“stazioni appaltanti” della Pubblica Amministrazione, giusto o sbagliato che
sia (e secondo me è sbagliato), tanto vale chiuderli. A fare questo mestiere, in
queste modalità, ci sono già ben ventuno Regioni e Province Autonome nonché il
Ministero del Lavoro.
Resta solo da stabilire quanto lo fanno bene.
In questo caso però perde completamente senso l’articolo 118
della legge 388/2000, istitutivo dei Fondi Interprofessionali, che riconosce
alle Parti Sociali (tecnicamente soggetti “privati”) la prerogativa di gestire
tali risorse. La legge infatti riconosce a chi rappresenta le imprese ed i
lavoratori la capacità ed il diritto di poter gestire delle risorse pubbliche
(lo 0,30% per la formazione continua piaccia o no è una tassa obbligatoria) al fine
di sviluppare politiche attive quali la formazione professionale per
incrementare la crescita delle imprese e l’occupabilità dei lavoratori.
Purtroppo, in linea con quanto già avviene da molti anni, il
Governo, il Ministero del Lavoro ed il Parlamento non intervengono su questa
controversia.
Ne è l’esempio, anche se non unico, l’affermazione del
Ministro Poletti, fatta serenamente e pubblicamente anche al convegno Fon.Coop
del 28 giugno 2016 a Roma, è che è meglio non tentare di legiferare in tal
senso perché non si saprebbe dove si va a finire.
Queste affermazioni non sono nuove e sicuramente non
dispiacciono a chi, anche all’interno delle Istituzioni, continua a sostenere
che i Fondi sono “impopolari”, che non “si vendono bene” e che tutto sommato si
meritano di essere sotto minaccia di chiusura e snaturamento o comunque oggetto
di consistenti prelievi per le politiche passive (vedi Cassa Integrazione in
Deroga) che ormai assommano ad un 20% della quota di legge destinata
originariamente ai Fondi stessi.
Senza contare poi le assurde contraddizioni delle regole
imposte, proprio dal Ministero, e l’imprevedibilità degli incassi da parte
dell’INPS, ente che comunque incassa una certa percentuale dello 0,30 per
questo servizio.
Certamente le scelte dei Fondi (e soprattutto delle loro
Parti Sociali) per quanto riguarda le procedure di concertazione e
finanziamento sono spesso discutibili, tuttavia pochi considerano che molti di
questi problemi nascono da regole assurde ed arbitrarietà finanziarie dello
Stato.
Di fronte a questi problemi le Parti Sociali sono molto più
interessate a criticarsi l’un l’altra ed ad attaccare i cosiddetti “fondini”
(cosiddetti piccoli fondi). Questi vengono definiti così non perché hanno pochi
numeri – assommano attualmente a due milioni di lavoratori ed uno di essi è il
terzo per grandezza - ma perché non sono promossi da Associazioni e Sindacati di
“Serie A”, lascio al lettore intendere quali.
Concordo invece pienamente con i pochi che sostengono che i
Fondi, sia pure con tutti i difetti, siano una esperienza di successo, specie
nella totale assenza di altre politiche attive.
Leggendo i rapporti ISFOL (organismo del Ministero) è
evidente, come ho affermato anche nel mio libro anni fa, che i Fondi stanno
contribuendo alla formazione di masse di lavoratori che non l’avrebbero mai
fatta e che, in qualche caso, hanno finanziato interventi di eccellenza.
Certo avere dei profili professionali di riferimento
aiuterebbe a capire meglio l’efficacia degli interventi, ma questi non li
abbiamo ancora in Italia e certo questo non è imputabile ai Fondi.
Sembra però che questo sia del tutto irrilevante e non si
capisce perché.
Persino le Parti Sociali, che a mio avviso hanno una
comprensione molto relativa del proprio strumento, sono disponibili, pur di
mantenere sia pure una piccola parte di potere sui Fondi, a mettere a
disposizione le risorse per la formazione professionale per le politiche
passive o comunque per sostenere l’occupazione, magari relativamente a legittime
politiche di genere e di integrazione degli stranieri.
Quello quindi che a me salta all’occhio, dopo dodici anni di
queste storie, è che nessuno, comprese le Parti Sociali, ha mai creduto al
fatto che formazione vuol dire competitività.
Quest’ultima non può essere ottenuta solamente abbattendo i
costi del personale, specie in un Paese avanzato come il nostro, anche se
sembra che questa soluzione sia sempre la preferita, ma proprio tramite
l’innovazione e l’aggiornamento professionale dei lavoratori ed è su questo che
in Fondi vanno valutati, criticati e rapidamente aggiornati.
Il Ministro, nel già citato intervento, ha detto addirittura
di ritenere l’innovazione come un elemento che genera in molti casi
disoccupazione, tesi veramente disarmante. Il resto del mondo civile sa che
l’innovazione tecnologica i posti di lavoro li crea e non li diminuisce,
ovviamente il processo deve essere accompagnato da potenti leve di formazione
professionale e di flessibilità (non precarietà) nei rapporti di lavoro.
Certamente se nessuno studia e si aggiorna, il lavoro lo perde comunque, è pura
logica, non serve pagargli la cassa integrazione.
Si è parlato anche di nuove professioni, ma il problema che
queste nuove figure non sono quasi mai lavoratori dipendenti ma professionisti
a partita iva o lavoratori cosiddetti atipici, tutte categorie escluse dalle
politiche di formazione continua e soprattutto, dai Fondi Interprofessionali
che non hanno strumenti in tal senso. La UE nel 2015 ha già previsto di
equiparare le Partite Iva alle PMI nel finanziamento, ma poche Regioni italiane
hanno recepito la norma.
E’ vero che esistono enormi fabbisogni finanziari generati
dalla crisi occupazionale ma dovremmo anche riflettere sull’efficienza e
l’efficacia del sistema dei Servizi e delle Politiche per l’impiego. Il costo
per disoccupato è enorme e molto incerta è l’efficacia dell’azione, visto anche
il continuo cambiamento del mercato del lavoro.
Le Regioni, che pur rivendicano un ruolo nella Formazione
Professionale a suon di norme, risorse UE e spese pro-capite molto superiori a
quelle dei Fondi, non dispongono di sistemi di valutazione dell’efficacia dei
propri interventi, non conoscono realmente i Fondi Interprofessionali con i
quali continuano a non collaborare e, soprattutto, sono in ritardo di anni sulla
definizione dei profili professionali (ritardo sanzionato anche dalla UE) senza
i quali è inutile valutare seriamente qualsiasi intervento sulla formazione
chiunque sia l’Ente finanziatore.
Quindi i Fondi Interprofessionali anziché rendersi
disponibili per sostenere ulteriori inutili politiche passive e populiste promosse
dai Governi (e non solo dall’attuale, trattasi di “antica tradizione”)
dovrebbero difendere meglio il proprio ruolo innanzitutto acquisendo
consapevolezza (specie assieme alle proprie Parti Sociali) delle cose buone
fatte finora e rendendosi molto più “popolari” con le imprese ed i lavoratori
semplificando le procedure amministrative e di concertazione sindacale.
Se è vero che esiste
ora una Rete per le Politiche Attive del Lavoro, allora i Fondi, mantenendo la
propria indipendenza politica ed amministrativa, possono collaborare
attivamente specie per tutti gli aspetti di riqualificazione legati alla
competitività delle imprese italiane rispetto al mercato internazionale.
Ma ridurli a meri erogatori degli ennesimi ammortizzatori
sociali senza prospettive serie per i lavoratori e per mantenere in vita
imprese decotte, sinceramente, non mi pare la soluzione.
E poi vorrei sapere cosa vogliamo fare per la Cassa Integrazione
o la formazione per disoccupati (che richiede centinaia di ore-uomo) con 40
euro a lavoratore all’anno di incasso medio per lo 0,30 decurtato. E’
aritmetica non politica.
Meglio chiudere e lasciare tutto allo Stato ed alle Regioni,
con tutte le conseguenze del caso.
Imprese e lavoratori, vi sta bene?
Giovanni Galvan
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