mercoledì 29 giugno 2016

Roma, 29 giugno 2016: Finanziare politiche passive salverà i Fondi Interprofessionali?


A due anni dalla pubblicazione del mio libro sui Fondi Interprofessionali sento l’esigenza di riflettere sui molti cambiamenti di scenario avvenuti specie nell’ultimo anno.

Come molti operatori del settore della formazione finanziata sanno, la lettera di ANAC (Authority Anticorruzione) al Ministero del Lavoro dei primi del 2016 ha messo in evidenza, al di là delle tesi espresse, un notevole vuoto normativo riconosciuto anche da una successiva circolare ministeriale (10 del 18 febbraio 2016) che parla di una "giurisprudenza e una dottrina non univoca".

Dovendolo riassumere per i non addetti ai lavori: i Fondi Interprofessionali sono Enti Pubblici?

Secondo ANAC (e molte sentenze di organi giudicanti) sembra di si. Da questo ne conseguirebbe l’obbligo di gestire tutti i contributi erogati secondo la normativa sugli appalti pubblici.
Esiste però una serie altre sentenze che però contraddicono questa tesi e giungono addirittura a definire le risorse in capo ai Fondi Interprofessionali come di natura privata.

Personalmente sono poco affascinato da queste controversie, a mio parere la risposta è molto semplice: se i Fondi vengono ritenuti “stazioni appaltanti” della Pubblica Amministrazione, giusto o sbagliato che sia (e secondo me è sbagliato), tanto vale chiuderli. A fare questo mestiere, in queste modalità, ci sono già ben ventuno Regioni e Province Autonome nonché il Ministero del Lavoro. 

Resta solo da stabilire quanto lo fanno bene.

In questo caso però perde completamente senso l’articolo 118 della legge 388/2000, istitutivo dei Fondi Interprofessionali, che riconosce alle Parti Sociali (tecnicamente soggetti “privati”) la prerogativa di gestire tali risorse. La legge infatti riconosce a chi rappresenta le imprese ed i lavoratori la capacità ed il diritto di poter gestire delle risorse pubbliche (lo 0,30% per la formazione continua  piaccia o no è una tassa obbligatoria) al fine di sviluppare politiche attive quali la formazione professionale per incrementare la crescita delle imprese e l’occupabilità dei lavoratori.

Purtroppo, in linea con quanto già avviene da molti anni, il Governo, il Ministero del Lavoro ed il Parlamento non intervengono su questa controversia.

Ne è l’esempio, anche se non unico, l’affermazione del Ministro Poletti, fatta serenamente e pubblicamente anche al convegno Fon.Coop del 28 giugno 2016 a Roma, è che è meglio non tentare di legiferare in tal senso perché non si saprebbe dove si va a finire.

Queste affermazioni non sono nuove e sicuramente non dispiacciono a chi, anche all’interno delle Istituzioni, continua a sostenere che i Fondi sono “impopolari”, che non “si vendono bene” e che tutto sommato si meritano di essere sotto minaccia di chiusura e snaturamento o comunque oggetto di consistenti prelievi per le politiche passive (vedi Cassa Integrazione in Deroga) che ormai assommano ad un 20% della quota di legge destinata originariamente ai Fondi stessi.

Senza contare poi le assurde contraddizioni delle regole imposte, proprio dal Ministero, e l’imprevedibilità degli incassi da parte dell’INPS, ente che comunque incassa una certa percentuale dello 0,30 per questo servizio.

Certamente le scelte dei Fondi (e soprattutto delle loro Parti Sociali) per quanto riguarda le procedure di concertazione e finanziamento sono spesso discutibili, tuttavia pochi considerano che molti di questi problemi nascono da regole assurde ed arbitrarietà finanziarie dello Stato.

Di fronte a questi problemi le Parti Sociali sono molto più interessate a criticarsi l’un l’altra ed ad attaccare i cosiddetti “fondini” (cosiddetti piccoli fondi). Questi vengono definiti così non perché hanno pochi numeri – assommano attualmente a due milioni di lavoratori ed uno di essi è il terzo per grandezza - ma perché non sono promossi da Associazioni e Sindacati di “Serie A”, lascio al lettore intendere quali.

Concordo invece pienamente con i pochi che sostengono che i Fondi, sia pure con tutti i difetti, siano una esperienza di successo, specie nella totale assenza di altre politiche attive.

Leggendo i rapporti ISFOL (organismo del Ministero) è evidente, come ho affermato anche nel  mio libro anni fa, che i Fondi stanno contribuendo alla formazione di masse di lavoratori che non l’avrebbero mai fatta e che, in qualche caso, hanno finanziato interventi di eccellenza.

Certo avere dei profili professionali di riferimento aiuterebbe a capire meglio l’efficacia degli interventi, ma questi non li abbiamo ancora in Italia e certo questo non è imputabile ai Fondi.

Sembra però che questo sia del tutto irrilevante e non si capisce perché.

Persino le Parti Sociali, che a mio avviso hanno una comprensione molto relativa del proprio strumento, sono disponibili, pur di mantenere sia pure una piccola parte di potere sui Fondi, a mettere a disposizione le risorse per la formazione professionale per le politiche passive o comunque per sostenere l’occupazione, magari relativamente a legittime politiche di genere e di integrazione degli stranieri.

Quello quindi che a me salta all’occhio, dopo dodici anni di queste storie, è che nessuno, comprese le Parti Sociali, ha mai creduto al fatto che formazione vuol dire competitività.

Quest’ultima non può essere ottenuta solamente abbattendo i costi del personale, specie in un Paese avanzato come il nostro, anche se sembra che questa soluzione sia sempre la preferita, ma proprio tramite l’innovazione e l’aggiornamento professionale dei lavoratori ed è su questo che in Fondi vanno valutati, criticati e rapidamente aggiornati.

Il Ministro, nel già citato intervento, ha detto addirittura di ritenere l’innovazione come un elemento che genera in molti casi disoccupazione, tesi veramente disarmante. Il resto del mondo civile sa che l’innovazione tecnologica i posti di lavoro li crea e non li diminuisce, ovviamente il processo deve essere accompagnato da potenti leve di formazione professionale e di flessibilità (non precarietà) nei rapporti di lavoro. 

Certamente se nessuno studia e si aggiorna, il lavoro lo perde comunque, è pura logica, non serve pagargli la cassa integrazione.

Si è parlato anche di nuove professioni, ma il problema che queste nuove figure non sono quasi mai lavoratori dipendenti ma professionisti a partita iva o lavoratori cosiddetti atipici, tutte categorie escluse dalle politiche di formazione continua e soprattutto, dai Fondi Interprofessionali che non hanno strumenti in tal senso. La UE nel 2015 ha già previsto di equiparare le Partite Iva alle PMI nel finanziamento, ma poche Regioni italiane hanno recepito la norma.

E’ vero che esistono enormi fabbisogni finanziari generati dalla crisi occupazionale ma dovremmo anche riflettere sull’efficienza e l’efficacia del sistema dei Servizi e delle Politiche per l’impiego. Il costo per disoccupato è enorme e molto incerta è l’efficacia dell’azione, visto anche il continuo cambiamento del mercato del lavoro.

Le Regioni, che pur rivendicano un ruolo nella Formazione Professionale a suon di norme, risorse UE e spese pro-capite molto superiori a quelle dei Fondi, non dispongono di sistemi di valutazione dell’efficacia dei propri interventi, non conoscono realmente i Fondi Interprofessionali con i quali continuano a non collaborare e, soprattutto, sono in ritardo di anni sulla definizione dei profili professionali (ritardo sanzionato anche dalla UE) senza i quali è inutile valutare seriamente qualsiasi intervento sulla formazione chiunque sia l’Ente finanziatore.

Quindi i Fondi Interprofessionali anziché rendersi disponibili per sostenere ulteriori inutili politiche passive e populiste promosse dai Governi (e non solo dall’attuale, trattasi di “antica tradizione”) dovrebbero difendere meglio il proprio ruolo innanzitutto acquisendo consapevolezza (specie assieme alle proprie Parti Sociali) delle cose buone fatte finora e rendendosi molto più “popolari” con le imprese ed i lavoratori semplificando le procedure amministrative e di concertazione sindacale.
Se  è vero che esiste ora una Rete per le Politiche Attive del Lavoro, allora i Fondi, mantenendo la propria indipendenza politica ed amministrativa, possono collaborare attivamente specie per tutti gli aspetti di riqualificazione legati alla competitività delle imprese italiane rispetto al mercato internazionale.

Ma ridurli a meri erogatori degli ennesimi ammortizzatori sociali senza prospettive serie per i lavoratori e per mantenere in vita imprese decotte, sinceramente, non mi pare la soluzione.

E poi vorrei sapere cosa vogliamo fare per la Cassa Integrazione o la formazione per disoccupati (che richiede centinaia di ore-uomo) con 40 euro a lavoratore all’anno di incasso medio per lo 0,30 decurtato. E’ aritmetica non politica.

Meglio chiudere e lasciare tutto allo Stato ed alle Regioni, con tutte le conseguenze del caso.

Imprese e lavoratori, vi sta bene?

Giovanni Galvan